Mercoledì, 24 Aprile 2024

I porti italiani non sono come gli altri

di Zeno D'Agostino

Per una difesa dei diritti delle autorità portuali italiane quali enti pubblici non economici di fronte alla posizione della “Commissione Europea” in materia di assoggettabilità all’imposta sul reddito.

Come ormai ben noto, la Commissione Europea ha recentemente contestato un presunto regime di aiuto che lo stato italiano avrebbe posto in essere in favore delle Autorità di Sistema Portuale (AdSP), non assoggettandole all’imposta sul reddito delle società (articoli 72 e seguenti del “TUIR – Testo Unico Imposte sul Reddito” – D.P.R., 22/12/1986 n° 917, G.U. 31/12/1986).

Secondo la Commissione, il trattamento fiscale differenziato tra le AdSP e le altre imprese operanti in Italia costituirebbe un ingiustificabile “vantaggio selettivo” a favore delle prime, capace di falsare la concorrenza e di incidere sul commercio all’interno dell’Unione.

Tale posizione della Commissione ricalca in modo pedissequo e alquanto “livellante”, azioni già intraprese in altri paesi delI’UE (e cioè Belgio, Francia e Paesi Bassi), benché in realtà il regime italiano di tassazione delle AdSP (e più in generale il “regime” di gestione) sia profondamente differente da quello applicato in altri stati membri destinatari delle decisioni della Commissione in materia di fiscalità delle società che gestiscono i porti.

Si deve infatti considerare che negli stati membri finora oggetto dei provvedimenti della Commissione, le “autorità portuali” non solo gestiscono i porti (spesso possedendo le relative aree), ma al tempo stesso sono imprese attive nella prestazione di servizi portuali dietro remunerazione.  Inoltre, tali “autorità portuali” non applicano canoni predeterminati dalla legge ma negoziano liberamente con le imprese interessate all’infrastruttura il livello del corrispettivo (che infatti è soggetto a IVA a differenza di quanto avviene in Italia!) per l’accesso alle aree del porto, in base a valutazioni di mercato.

Tali differenze sostanziali fra il sistema italiano e altri contesti europei (nei quali si è percorsa in passato, a differenza dell’Italia, la strada della “societarizzazione” dei porti), costituiscono la base sulla quale ci si sente già ora di affermare che la decisione della Commissione è evidentemente fondata su presupposti scorretti, e nel confronto della quale si agirà, a tutela degli interessi nazionali (non solo del settore portuale ma dell’intera economia), seguendo la linea difensiva delineata nel seguito.

Come principio generale, si sosterrà la posizione secondo la quale il regime di tassazione delle AdSP nell’ordinamento italiano non solo non concede alle AdSP alcun “vantaggio selettivo”, ma non rientra neppure nel campo applicativo della sezione sugli “aiuti di stato” (articoli 107 e seguenti del “TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’UE”).

Deve essere infatti richiamato il principio secondo il quale le regole in materia di aiuti di stato si applicano esclusivamente alle imprese, mentre nell’ordinamento italiano le AdSP – a differenza di altri paesi europei – non sono imprese ma enti pubblici non economici cui la Legge n. 84/1994 assegna precipuamente funzioni “regolatorie”, precludendo lo svolgimento di attività economica, cominciando proprio dalla prestazione di servizi portuali.

Le AdSP, quindi, non solo non offrono beni e servizi su alcun mercato ma non sono neppure titolate a determinare autonomamente l’importo della tassa (il canone demaniale) che riscuotono dalle imprese concessionarie per conto dello stato proprietario dei beni demaniali portuali.

E che l’”occupazione del demanio” non costituisca un servizio che le AdSP offrono sul mercato è reso evidente dal fatto che il pagamento dei canoni demaniali non è soggetto a IVA, coerentemente al principio per cui non si possono pagare tributi sui tributi.

Di qui, la mancanza di potere da parte della Commissione di far rientrare l’ammontare del canone demaniale applicato dallo stato italiano fra le componenti “tassabili”, poiché si tratterebbe di una forma impositiva a carico delle imprese concessionarie (uniche erogatrici di servizi portuali) che si andrebbe ad aggiungere all’imposta sulle società pagata dalle stesse.

A questi già rilevanti elementi, si aggiungono altre considerazioni che contribuiscono a rafforzare la linea di difesa.

Va innanzitutto notato che il regime contestato non comporta un onere finanziario per lo stato: per regola, le risorse delle AdSP devono infatti essere utilizzate dalle AdSP soltanto per il proprio funzionamento e per lo svolgimento della propria missione istituzionale.  Inoltre, in quanto organi decentrati, le AdSP concorrono a determinare il conto economico consolidato dello stato assieme alle altre amministrazioni centrali e locali.  Pertanto, i “debiti” delle AdSP sono, a tutti gli effetti, passività dello stato italiano, motivo per cui, il maggiore onere fiscale che deriverebbe dall’applicazione dell’imposta sulle società concessionarie risulterebbe pertanto una semplice partita di giro e gli importi corrisposti a tale titolo non potrebbero essere utilizzati dalle AdSP per svolgere la propria missione istituzionale. Se si realizzasse lo scenario preteso dalla Commissione, lo stato dovrebbe quindi aumentare i propri contributi alle AdSP, esattamente come farebbe nei confronti di una regione, di un comune o di qualsiasi altro ente appartenente alla pubblica amministrazione.

Un’ulteriore riflessione riguarda la questione della “distorsione della concorrenza” richiamata dalla Commissione, che ipotizza il rischio di svantaggi nei confronti di non meglio identificati concorrenti «non sovvenzionati» per la gestione di porti. Non si può non considerare però che le AdSP in Italia, anche in analogia a molti altri enti, ricadono indiscutibilmente nell’ambito dell’Art. 74 del TUIR (“Stato e enti pubblici”) e non nell’elenco degli altri soggetti passivi di imposta definito dall’Art. 73. Un’analisi appropriata del “sistema di riferimento” fiscale, da parte della Commissione, avrebbe dunque facilmente permesso di intendere che le AdSP in Italia sono assoggettate, come enti pubblici non economici, al medesimo regime fiscale applicabile, ad esempio, a tutte le amministrazioni che gestiscono il demanio e che dunque si trovano in condizioni di fatto e di diritto comparabili.  Se l’analisi del “sistema di riferimento” fosse stata correttamente condotta, sarebbe quindi apparsa completamente ingiustificata l’idea che ci si trovi di fronte al rischio di “selettività” dell’aiuto.

Del resto, risulta alquanto evidente che il regime vigente non distorce la concorrenza né incide sugli scambi fra gli stati membri, visto che i requisiti di una “potenziale distorsione” possono ritenersi soddisfatti soltanto nell’ambito di settori aperti alla concorrenza, mentre lo stato italiano si è riservato in esclusiva sia la proprietà sia l’amministrazione dei beni demaniali portuali, con riguardo ai quali non esiste alcun “mercato” né concorrenza, neppure meramente potenziale.

Molti elementi contribuiscono, dunque, a ritenere che la posizione della Commissione sia impropria e sia quindi necessario e giusto reagire con gli strumenti del caso. Rimane comunque la convinzione che l’Unione Europea, benché qualche volta sbilanciata verso linee ispirate a standard e casistiche riconducibili prevalentemente al contesto di alcuni stati membri di riferimento, continui a costituire la chiave di volta di un sistema che garantisce, in Europa, l’applicazione corretta del diritto in materia economica: questo ci rende assolutamente fiduciosi che, alla fine, con il supporto di tutti, prevarranno le ragioni giuridiche e i diritti ben fondati dei nostri porti che alimentano non solo la nostra economia nazionale, ma anche quella dell’intera Europa.

Zeno D’Agostino
Presidente “Assoporti”